La Storia della Chiesa del Carmine

La chiesa del Carmine nacque come “chiesa nobile” del castello, accanto alle vaste distese bastionate dove le milizie si addestravano alla guerra o a sanguinose battaglie. Non si fatica così a comprendere come il convento e la chiesa dei Carmelitani – l’ordine si era stabilito a Milano verso il 1250 – fossero così venuti a trovarsi coinvolti in un’opera di assistenza ed aiuto davvero singolari: ricovero di feriti, nascondiglio di sbandati, opera di pacificazione, di consiglio, di mediazione.

La chiesa del Carmine nacque dunque come chiesa aristocratica, viscontea nella prima e seconda (1391 – 1406) versione, sforzesca nella terza edizione, quella definitiva anche se incompleta perché soggetta ad un crollo nel 1446. Ricevette devozione, culto e onori da alcune tra le importanti famiglie milanesi. Fu tenuta in grande considerazione dai Visconti, tra i quali si ricordano: l’arcivescovo Giovanni, il duca Gian Galeazzo che nel 1400 rilasciava il decreto per l’occupazione del fondo lasciato in eredità nel 1354 al Convento dei Carmelitani da Martino de Capelli e sito sotto la parrocchia di San Carpoforo, affinché… “il mio corpo venga seppellito nella nuova Cappella che s’è incominciata a farsi nella Chiesa, cioè presso la Chiesa dei Frati di S. Maria del Monte Carmelo di Milano”, ed il duca Filippo Visconti. Fu sostenuta e finanziata dagli Sforza, da Francesco Sforza, da Galeazzo Maria, dal cardinale Ascanio Sforza, da Gian Galeazzo Maria ed infine da Ludovico il Moro, e dai consiglieri, ciambellani e cavalieri, appartenenti – i più noti – alle famiglie Simonetta, da Corte e Lampugnani. Ed anche successivamente, la chiesa del Carmine fu cara a tanti nobili casati milanesi, via via legati ai successivi “padroni” francesi, spagnoli e austriaci.

A questa ricca frequentazione, che l’arricchì di tombe e di cappelle gentilizie, fonti di annui e sicuri cespiti, fin dal principio si affiancarono alcune confraternite, tra le quali – famosissima e potente – la “Scuola dell’Abito del Carmelo” che nel periodo più antico della chiesa contese (fino al 1391) il primato all’altra non meno fiorente “Arciconfraternita dei Divoti della Purificazione”. Questa confraternita trasse il nome del titolo che la chiesa, inizialmente dedicata all’Annunciazione (come ricordano i due bassorilievi a fianco del portale principale), ebbe ad avere per qualche decennio prima di assumere definitivamente quello della Madonna del Carmine; dopo un periodo di decadenza, si ricostituì nel 1511, quando pose sede al Carmine presso la cappella della Purificazione.

Un luogo vivo

Le confraternite avevano il loro posto preciso nelle processioni, dopo la nobiltà, e festeggiavano nella chiesa i santi patroni. Il Morigi ricorda che nella ricorrenza di Sant’Agata “li tessitori di tela fanno la festa nella chiesa del Carmine”, forse chiamativi dalla Confraternita dell’Abito.

Nobiltà e confraternite provvedevano sì ai bisogni della chiesa, ma era poi, come sempre, il popolo – quello dalla fede più genuina e semplice che ne affollava i riti portando il suo carico di sacrifici, di speranza fiduciosa e sempre viva, di sincera gratitudine – che donava quel poco che aveva, ma con continuità, svincolato com’ era dalle fortunose vicende dei potenti.

Le contrade attorno al Carmine erano quanto mai vive e numerosissime le botteghe: osterie, indoratori, stampatori su tela, merciai, barbieri, zoccolai, ortolani, speziali, maniscalchi, tessitori, lavandieri, fabbri, carrettieri. Qua e là, soprattutto nella vasta piazza davanti alla chiesa, nelle sue vicinanze e in quelle di San Carpoforo, eleganti dimore testimoniavano la presenza di famiglie importanti, come i Cusani, ed austeri palazzi ospitavano nobili collegi, come quello dei Gesuiti nell’antica sede degli Umiliati o Palazzo di Brera; ma v’erano pure pittori, notai e scrittori e, nell’Ottocento, musicisti, compositori e cantanti.

Oggi di tutto questo poco rimane: banche e uffici, negozi e gallerie d’arte hanno svuotato le storiche contrade della loro popolazione. Anche se a scapito di altre tre, soppresse nei secoli scorsi (San Carpoforo – San Protaso in campo intus – Sant’Eusebio), la parrocchia del Carmine conta oggi poco meno di cinquemila anime. Ma una caratteristica le è rimasta e l’avvicina ancora alla sua singolarità originaria: quella di essere confinante con il Comando del III Corpo d’ Armata, per cui si perpetua – però con accenti rispettosi ed a volte simpaticamente collaboranti – l’antica vicinanza tra chiostro e caserma.

Lo stile

Pur con i guasti arrecati dai rifacimenti e dai completamenti, la chiesa del Carmine conserva la pienezza del suo fascino. Essa accoglie il visitatore nel suo solenne e monumentale spazio interno, di estrema chiarezza ed ineccepibile coerenza. L’austero volume è sorprendentemente unitario, malgrado le tre navate scandite da ampie arcate gotiche e separate al centro della duplice fila di sei massicce colonne dai rustici capitelli.

Tre i colori fondamentali: il rosso del mattone, secondo la migliore tradizione milanese e lombarda; il grigio (a tratti un po’ “rosato” dall’intonaco uso mattone steso in passato e successivamente rimosso) della pietra di Angera delle colonne (alternativamente al cotto) e delle altre pietre impiegate per le basi ed i bassi e larghi capitelli gotici; il bianco degli intonaci su volte e pareti, finalmente ripristinati nei restauri di questo secolo al posto delle pesanti e sovrapposte decorazioni sette-ottocentesche.

Si avverte uno spirito decisamente lombardo, ma anche vagamente cistercense, nelle lesene poggianti sui capitelli delle colonne con semplice raccordo ricurvo; le lesene reggono le grandi arcate ogive che dividono la navata centrale, fino all’incrocio con il transetto, in tre capate di lato doppio delle laterali che, ridotte a navatelle, fanno convergere sulla navata di mezzo e sui due bracci di capocroce l’effetto di grande sacralità dello spazio interno.

L’evidente strapiombo verso la facciata delle colonne documenta l’incompletezza della struttura: la chiesa doveva infatti avere una campata di più, ma venne fermata alla terza, forse per mancanza di mezzi. Ne discese che le spinte degli archi retrostanti, per diverso tempo non sufficientemente contrastate da idonee murature, generarono l’anomala inclinazione, solo tardivamente stabilizzata dalla massiccia facciata del Maciachini.

Se risaliamo agli ideatori di questa bella chiesa, troviamo che il progetto iniziale del 1400 fu steso da Bernardo da Venezia, in quel momento all’apice della fama: architetto ducale, già impegnato in posizione secondaria nel cantiere del Duomo di Milano, era in quel tempo intensamente occupato a Pavia, ove gli erano stati affidati da Gian Galeazzo Visconti il progetto ed il cantiere della Certosa, quello della omonima chiesa del Carmine, tanto somigliante alla nostra, e di altri edifici. Pur non portando a termine la costruzione, la conferì tuttavia quelle caratteristiche che Pietro Antonio Solari, intervenendo nella ricostruzione una sessantina di anni dopo all’ epoca di Ludovico il Moro, dovette rispettare ed armonicamente integrare riutilizzando le strutture superstiti al crollo del 1446.

Sopravvissute al crollo le colonne e parte delle strutture verticali, l’intervento del Solari riguardò sostanzialmente il rifacimento degli archi e delle volte attuato nel rispetto del progetto di Bernardo, come attestano i confronti perfettamente combacianti con altre chiese assegnate all’architetto veneziano. A questa fase sforzesca risalgono infatti le chiavi delle volte, tutte recanti le insegne di Angelo Simonetta (consigliere ducale qui sepolto nel 1472 e senz’altro, se non il maggior finanziatore, di certo il promotore della ricostruzione), in tal modo attestanti che questa fase è sicuramente posteriore al 1457.

Aspetti di particolare interesse

Desideriamo sottolineare tre aspetti di particolare interesse di questa chiesa, per la verità poco conosciuta, nella speranza di poter contribuire ad una sua maggior frequentazione e doverosa valorizzazione.

Il primo è la barocca Cappella della Vergine del Carmine, sul fianco destro del presbiterio. In origine dedicata a Santa Apollonia, venne riedificata per celebrare la devozione al Sacro Scapolare, devozione rilanciata dalla Confraternita o Scuola dell’Abito fondata da San Simone Stock nel 1251. Furono i deputati di questa Scuola ad avviare nel 1673 i lavori di riedificazione della cappella su disegno dell’architetto milanese Gerolamo Quadrio. La cappella venne rifatta con l’impiego di un’esuberante varietà di marmi colorati e neri, con abbondanza di ornati e di cornici dalle linnee spezzate, maturamente barocche. Il pittore tardomanierista emiliano Camillo Procaccini vi illustrò in otto grandi quadri, episodi di prefigurazione veterotestamentaria e di vita della Madonna ed affrescò la cupola maggiore, di cui il pittore Stefano Legnani, detto il Legnanino, decorò i pennacchi; lo scultore Giovanni Battista Maestri, detto il Volpino, vi scolpì la bella statua della Madonna del Carmine, posta sull’altare. La cappella costituisce un ambiente tutto particolare, quasi l’interno di un cofanetto prezioso, esteticamente in contrasto con l’austerità architettonica della chiesa, ma di fatto esprimente con il gusto dell’epoca, la stessa devota venerazione per la Vergine di cui tutta la chiesa è portatrice.

Il secondo aspetto di particolare interesse del complesso è costituito dalla sacrestia, cosiddetta “Sacrestia artistica”: gli armadi e l’altare in legno di noce nero sono stati disegnati dallo stesso Gerolamo Quadrio e realizzati magistralmente dall’intagliatore Giovanni Quadrio (1692 – 1700). Vi risalta per inventiva ed intaglio l’ancona raffigurante la Madonna che dà l’abito ai Carmelitani. L’insieme è espressione esemplare di un barocco maturo che sa coinvolgere e sopraffare il visitatore e come tale rappresenta indubbiamente un capolavoro dell’arte del tempo.

Terzo elemento di particolare interesse è rappresentato dalle espressioni dello stile neogotico lombardo tra la fine XIX e l’inizio del XX secolo. Testimonianze notevoli di questo stile possono essere trovate nella Cappella del Sacro Cuore (la seconda della navata destra), ristrutturata dall’architetto Carlo Maciachini e con dipinti del pittore Luigi Morgari; nella successiva, dedicata alla Sacra Famiglia, ristrutturata dall’architetto Egidio Mazzucchelli ed affrescata dal pittore Osvaldo Bignami; nel Battistero (nella prima cappella della navata sinistra) su disegno dell’architetto Felice Pizzagalli; nella Cappella della Madonna del Rosario (la quarta della navata sinistra), rifatta all’inizio del XX secolo e sempre con affreschi di Osvaldo Bignami. Sugello di questo stile neogotico, così ben documentato al Carmine, è la facciata di Carlo Maciachini, architetto noto ai suoi tempi, autore del Cimitero Monumentale di Milano e responsabile della ristrutturazione di vari edifici e chiese sempre nel capoluogo lombardo. Su un muro di tamponamento il Maciachini stese una facciata in cotto del tutto “nuova”, secondo una sua libera e romantica interpretazione del gotico lombardo. La ricerca accademica, il gusto archeologico, la duttilità del suo temperamento hanno portato l’architetto a riproporci ben poco dei veri moduli lombardi, ad esempio solariani, e che conosciamo più austeri, coerenti ed essenziali. Ma asteniamoci dal giudizio: valutiamo e rispettiamo questa facciata come documento storico e come tale ineccepibilmente vero ed autentico. L’odierna concezione del restauro conservativo può infatti istintivamente condannare interventi del genere, ma tali opere rimangono espressione di una cultura che va comunque compresa ed indagata.

La chiesa del Carmine presenta molte altre opere, non celebri forse, ma certo significative: tele del Fiammenghino, del Duchino e di importanti pittori del barocco lombardo come Federico Bianchi e Filippo Abbiati.

Dall’antico convento dei Carmelitani rimane solo ma purtroppo non integro, il chiostro, ora occupato per più di metà da nuovi fabbricati civili; tuttavia, questo compromesso ha consentito di mantenerlo in vita come entità architettonica unitaria; sotto le sue arcate e sotto le lapidi ed i reperti di antica storia murati nelle sue pareti, fanno festa i fanciulli degli oratori e la viva comunità del Carmine.

Da ultimo una notizia interessante riguardo la cantoria lignea posta sul fondo del presbiterio. Le quindici statuette che ornano la sua balconata e le quattro più grandi poste in altezza lungo i due lati esterni, non sono in legno o in marmo: sono gli originali modelli in gesso di statue ottocentesche da destinarsi alle guglie, presentati alla Fabbrica del Duomo per l’esecuzione definitiva in marmo. Erano state richiesti dalla Fabbriceria del Carmine all’Amministrazione della Fabbrica e concessi dopo una lunga trattativa. Di mano dei migliori scultori del tempo a cavallo tra il tardo neoclassico ed il primo romanticismo, questi preziosi modelli presenti al Carmine e le identiche marmoree statue in scala maggiore innalzate sul Duomo attestano un ulteriore legame tra la chiesa del Carmine e la Cattedrale, già testimoniato da famosi artisti, architetti e generosi mecenati.